mercoledì 23 dicembre 2009

Voce del verbo And-are

Quando da piccola mi immergevo nelle pagine del lacrimoso libro Cuore, mi lasciavo sempre trascinare dalle stesse storie. Tra le preferite, quella del malvagio Franti (“e l’infame sorrise”), o “L’uomo dagli occhi di vetro”, fino ad arrivare al Piccolo Scrivano Fiorentino, per ovvie ragioni campanilistiche. Ma tra tutte, “Dagli Appennini alle Ande” era quella che mi attirava meno… Era innanzitutto molto più lunga di altre ed io, si sa, sono sempre stata ignorante. Inoltre, mi pareva davvero troppo strappalacrime, anche per un polpettaro come il signor De Amicis. Infine, soprattutto, raccontava di un mondo che non mi apparteneva del tutto, era una specie di romanzo di fantascienza ed io la trilogia di Asimov ce l’ho ancora intonsa nella mia libreria, placidamente avvolta nella sua psichedelica copertina rigida. Certo, l’Appennino ce l’avevo dentro, non sapevo

bene dove e come fosse, ma comunque sapevo che di tanto in tanto su questo fantomatico Appennino ci si andava, mi avevano raccontato che era fratello delle Alpi e col tempo era divenuto quasi meccanico, dopo le prime lezioni di geografia, disegnare una striscia marrone in mezzo allo stivale… ma le Ande, signori… le Ande… CHE COSA DIAVOLO erano, le ANDE?!? Qualcosa tipo la Luna? Luoghi lontani anni-luce e dispersi nelle galassie, probabilmente disabitati, o colonizzati da forme di vita aliena delle quali era più rassicurante non conoscere niente? O più semplicemente costituivano un sinonimo dotto di “Monculi Soprempoli”, immaginaria località della tradizione vernacoliera toscana, creata per indicare un posto tanto sperduto quanto inesistente?

Ecco, sì. Questo pensavo. Che le Ande svolgessero una funzione più che altro lessicale, che chissà come fossero state relegate a modo di dire dopo qualche oscuro accadimento storico e che col tempo fossero diventate così, parenti strette delle Calende Greche, sulle quali in fin dei conti non valeva la pena indagare oltre.

Invece, nella sorpresa generale, sono qui a dirvi che ho scoperto che le Ande, queste sconosciute, ci sono! Esistono sul serio!

E non hanno niente di irreale, sebbene siano spesso teatro di situazioni surreali.

Insieme alle Ande, navigavano nei mari della mia memoria altri loschi figuri. Quelli che alle elementari comparivano nel sussidiario qualche tempo dopo i dinosauri, ma solo come accenno, ed ai quali di solito era dedicata una paginetta grigia di approfondimento dalle parti del 1500, peraltro decisamente in penombra rispetto alla lucente compagnia che li affiancava: dal signor Colombo all’Isabella di Castiglia, fino ad arrivare alle valenti caravelle (delle quali, pure, se ci avessero mostrato un’immagine, di tanto in tanto, oggi avrei un’idea più chiara senza dover ricorrere a Wikipedia). Nel box grigio, dunque, c’erano loro. Gli indigeni. Le popolazioni native. I maya, gli aztechi e gli incas. Il Dai, il Picchia, il Mena. Proprio loro. Quelli che facevano le piramidi a scalini. Quelli che sacrificavano gli esseri umani agli dei (anche qui, cercavano di farci stupire… ma ex-post, avrei scoperto essere pratica piuttosto diffusa anche in luoghi meno esotici). Quelli che facevano la guerra a modino. Quelli che, allo stesso modo delle Ande, relegavi a un canto della memoria, perché era molto più facile ricordarsi del Genovese e della bella regina di Spagna, perché la parola sterminio non era simpatica per dei ragazzini e perché in fondo, chi se ne frega! Quella notte Colombo aveva scoperto l’America e di lì tutto incominciò! I videogame, i microonde, il cinema, gli aerei, i computer, internet. Tutto opera di Colombo. E quei tre gatti? Bah, probabilmente un costrutto linguistico pure loro, che se ne restassero nel loro box.

E invece... Non c’è trucco non c’è inganno. Esistevano pure loro. Oddio, sui maya e sugli aztechi devo ancora indagare, ma tutto questo, a meno che il presidente Garcia non abbia individuato nella costruzione di falsi siti archeologici una valida via d’uscita dalla crisi globale, pare essere proprio opera degli incas. Questo, che pare un anfiteatro, veniva in realtà utilizzato per effettuare colture sperimentali: ogni livello è caratterizzato da un differente microclima e nel centro pare si concentri un’energia particolare (così particolare che da quando ci sono stata, l’orticaria non mi ha mai più abbandonata).

Qua sotto, invece, i resti di Sacsayhuamán, di cui ancora non si è ben compresa la funzione: forse una fortezza, forse un tempio. Resta il fatto che gli spagnoli ne sottrassero le pietre megalitiche e ci fecero le loro case. Belline, per carità, niente da dire. L’architettura coloniale ha un suo perché e la trovo pure molto romantica, ché mi fa sentire in un libro di Marcela Serrano… ma insomma, dico io, di sassi ne è pieno il mondo, mò proprio dalla fortezza te li devi anna’ a pija’?!?

Ed è solo un esempio. Pare che l’abbiano fatta davvero grossa Pizarro i suoi. Così grossa che pare anche che nessuno si stupisca più alle parole dell’inno nazionale peruviano, quando promettono che "nuestros brazos, hasta hoy desarmados, estén siempre cebando el cañón, que algún día las playas de Iberia sentirán de su estruendo el terror". Ma questa è un’altra storia…

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